Vi ricordate il Cluetrain Manifesto, con le sue 95 tesi che sono un invito all’azione per tutte le imprese che operano in un mercato interconnesso? La prima versione risale al 1999, ma è ancora attualissima.
Cito la prima tesi: “I mercati sono persone”. Persone che hanno esigenze in comune da soddisfare. Sono sicuro che gli autori del manifesto stessero parlando di consumatori, ma possiamo applicare lo stesso discorso ai dipendenti.
L’internazionalizzazione, infatti, sta portando le aziende a dover gestire processi in luoghi dove abitano abitudini, cultura, leggi molto diversi dalle nostre. Con sedi e colleghi sparsi per il pianeta ovviamente sorgono nuovi ostacoli.
Le barriere linguistiche, culturali e organizzative infatti, frenano il dialogo ed è difficile comunicare e verificare il raggiungimento degli obiettivi tra realtà così diverse all’interno di ciò che dovrebbe essere un’unica azienda.
Ma se i processi e le informazioni che ne derivano sono così diversificati e frammentati, come fanno le aziende a capire se stanno andando nella giusta direzione? A individuare i nuovi segmenti in cui investire? O dove rivedere l’organizzazione?
Non possono, perché sono ingabbiate in una parola che sicuramente tutti conoscete e avrete sentito ripetere più volte. In SILOS. Non hanno una visione d’insieme. Ma mettere in atto delle procedure standardizzate è l’unico modo per allinearsi tutti allo stesso piano.
Abbiamo visto molte aziende provarci: fiumi di documenti, impostazioni condivise, riunioni.
Peccato che poi si finisca per dipendere dalla discrezionalità dei vari referenti delle varie sedi, che possono:
Vi portiamo l’esempio di una grossa multinazionale che opera nel settore chimico-farmaceutico. Si tratta di un’attività di cui, come consulenti per la trasformazione digitale agile, abbiamo seguito da vicino il percorso di standardizzazione dei processi di gestione del budget e delle operations. L’azienda voleva sfruttare la leva dell’informatizzazione per favorirne l’adozione, mitigando allo stesso tempo l’impatto del cambiamento.
Questo colosso della farmaceutica ha 17mila dipendenti su poco più di 100 aziende, è capogruppo italiana ma ha diversi hub di coordinamento sparsi fra Europa, Centro America e Asia.
Si tratta di un’azienda abituata a lavorare per progetti, in quanto li vedono come lo strumento ideale per monitorare lo sviluppo evolutivo dell’azienda e il raggiungimento degli obiettivi di business.
Quando li abbiamo incontrati nel 2014, hanno sentito in modo lungimirante l’esigenza di aumentare il controllo su questo loro elemento base: i progetti.
Organizzavano periodicamente delle riunioni – le project portfolio review – dove ogni interlocutore responsabile di progetto si interfacciava con il comitato direttivo. Fin qui tutto okay. Ogni referente, però, nell’esporre l’andamento dei progetti che seguiva usava un suo format informativo: strutture, KPI, modalità di presentazione differenti.
Il management a questo punto si trovava in difficoltà perché doveva visionare decine di progetti senza un minimo comune denominatore. Banalmente, con metriche di misurazioni differenti, era difficile anche solo fare confronti, figuriamoci poi se si poteva arrivare all’analisi degli scostamenti.
Il risultato era evidente: ognuno faceva quello che voleva seguendo la sua idea di sviluppo.
Riportiamo un breve aneddoto (inventato!) che ci dà una chiara idea di cosa significhi avere il controllo sui progetti.
L’AD dell’azienda aveva accentrato su di sé l’autorizzazione di qualsiasi tipo di spesa, anche le più piccole. Un giorno riceve una RdA da approvare con descrizione “una cloche”. Avendo così tante approvazioni da validare, leggeva le descrizioni sempre in modo molto sbrigativo e si concentrava solo su quelle di importo maggiore. Perplesso, fa chiamare il responsabile della divisione per chiedergli “una cloche? Cosa ce ne facciamo di una cloche?” e sentirsi rispondere dal capo divisione, molto serenamente, che la restante parte dell’elicottero l’avevano già acquistata a pezzi.
La sensazione di controllo è aleatoria, perché manca la visione di insieme. Nel nostro colosso farmaceutico gli obiettivi venivano raggiunti? Dipende.
Nei singoli non c’era la capacità di avere una visione di insieme, di capire come la strategia aziendale possa essere “messa a terra” e se un progetto fosse da considerarsi strategico. Non c’era un metodo univoco e quindi non si riusciva a capire l’andamento globale, con tutta questa parcellizzazione legata allo sviluppo di singoli progetti locali.
Ecco come è nata l’esigenza.
Il comitato direttivo ha via via percepito questa difficoltà e hanno voluto creare assieme a noi una standardizzazione dei processi di gestione del budget, in primis, attraverso una piattaforma web condivisa. Ovviamente, non si può parlare di budget senza toccare le aree dove questo viene speso, e quindi abbiamo dovuto gestire anche le aree che presiedono la gestione dei progetti, dei contratti e delle manutenzioni ordinarie e straordinarie.
L’adozione di una piattaforma software condivisa porta inevitabilmente a vincolare gli utenti ad esso, a compilare i campi che esso chiedere nell’ordine in cui lo chiede, perché diversamente questo, semplicemente, non va avanti. Nessun litigio, nessuna discussione.
Così facendo, i processi sono stati resi non discrezionali. Perché i singoli referenti di progetto dovevano “obbligatoriamente” seguire quanto imposto dal software. Come dicono nei film, nessun dirigente è stato maltrattato durante questa transizione.
Semplicemente, con questa applicazione accessibile tramite un semplice browser, i manager dovevano inserire le informazioni, i vari step e le evoluzioni relativi ai loro progetti in campi precompilati, uguali per tutti. Tutti allo stesso modo. Dall’Europa all’Asia passando per l’America. Digitalizzando la gestione dei progetti così come tutto il resto, si otteneva un unico metodo di interlocuzione adottabile in modo assolutamente indolore.
Nel giro di breve tempo i referenti stessi hanno capito come l’adozione di questa piattaforma abbia semplificato di molto le modalità organizzative e il tempo che dedicavano anche solo semplicemente al reporting.
La multinazionale si è trovata ad avere così un unico repository informativo per:
Da quanto raccontato, si capisce chiaramente che il problema non è mai “quale medicina (leggi prodotto tecnologico) uso” e se questo è più o meno blasonato.
L’esperienza e la cultura delle persone fanno davvero la differenza in un ambiente caratterizzato da processi che devono essere prima mappati, poi normalizzati ed infine standardizzati. I dati sono solo una conseguenza di questi, motivo per cui se vuoi avere il budget già impegnato di un dipartimento non devi partire dai numeri ma dai processi che portano le persone a definire quei numeri.
I progetti sono il modo con cui le aziende gestiscono l’evoluzione e, per questa ragione, sono un importante strumento di crescita. I progetti sono “scatole” che contengono soldi (da spendere e già spesi), deliverables, partner, rischi, allocazione di persone, calendari, date di lavorazione e di consegna… avere il controllo di questi vuole dire garantire il raggiungimento di importanti obiettivi aziendali.
Questo ci spinge a non cercare mai un approccio univoco: nella loro singolarità, cerchiamo di capire di volta in volta qual è la tecnologia che meglio supporta i loro processi.
Tornando alla nostra azienda, dopo un periodo di rodaggio e di attivazione, i risultati si sono subito visti. Il Corporate IT Manager, con cui ci interfacciavamo quotidianamente, ha ammesso che, rispetto a prima, ora:
Il fatto che un dirigente apicale dell’azienda abbia toccato con mano i benefici della digitalizzazione, l’ha portato poi a consigliarla anche agli altri reparti. A crederci e a promuoverla internamente, consapevole dei miglioramenti che potrebbe portare la digitalizzazione.
Ma cos’è la digitalizzazione? Comunemente si pensa alla digitalizzazione come a una dematerializzazione dei processi. Meno carta, tutto è online: basta un pc per trovare quello che serve. È vero in parte, ma il vero valore della digitalizzazione sta nel ridisegnare i processi. In meglio.
Quello che prima richiedeva complicati work-around sul digitale è ottimizzato. Gli sforzi richiesti sono inferiori, non ci sono ridondanze, le informazioni sono sempre condivise… Un’approvazione, ad esempio, può essere gestita con un click, senza infiniti passaggi di mail. La Robotic Process Automation da questo punto di vista sta facendo passi da gigante.
Il digitale crea un modello efficiente, che è scalabile n volte, tanti quanti sono i mercati in cui è presente l’azienda. Crea un metodo condiviso, che non è bypassabile: pensiamo ai vincoli imposti nella gestione dei progetti dall’applicazione informatica.
Qual è la lezione che possiamo trarre dall’esempio raccontato?
L’operatività può essere decentralizzata, il controllo no. Per questo dobbiamo mettere in atto processi standardizzati, con il supporto del digitale.
Molto comunemente in azienda si trovano soggetti che oppongono resistenza al cambiamento. Quando si parla di digitalizzazione, la frase più pronunciata è “abbiamo sempre fatto così”. Certo, ma perché non farlo meglio?
Dalla nostra esperienza personale, possiamo consigliarvi di fare un test su un dipartimento early adopter… una volta che vedranno di persona i vantaggi che possono ottenere anche a livello lavorativo personale – risparmio di tempo, lavoro semplificato, migliore lettura di dati – si crea un effetto valanga di interesse.
Ecco perché secondo noi il digitale è la chiave per internazionalizzare i processi. Perché permette di esportare il controllo, in primis, e l’efficienza in subordine.
*Articolo di Francesco Clabot – Docente di IT Service Management all’università di Padova e CTO di WEGG, tratto dallo speech all’evento “Be International. Be Digital. Il ruolo della trasformazione digitale per lo sviluppo internazionale delle imprese. Nuova normalità e trend futuri” organizzato da CUOA Business School il 14.09.2021
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